URAGNA n 01 della serie "Apocalisse Simpatica"
"ZONA AERAZIONI"
di
BARBARA BIZZARRI
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"ZONA AERAZIONI
Volevo parlare quel giorno.
Mi ero alzata con la testa limpida come il cielo di una prima primavera, quando il grano è una vernice verde e i rami della quercia fanno un merletto al cielo azzurro intenso, sotto, come uno sfondo, e sopra come post it nuvolette leggere e nuvoloni pesanti e grigi, arrabbiati, per non poter sfogare la propria inquieta rabbia. I raggi del sole sono gialli e il mondo sembra appena fatto. Perfetto. Perfetto come la quercia grande e compita nella sua forma stabile, eretta, sferica all’apice. Ecco. La mia testa era così: aveva quella voglia di alzarsi per gustare il mondo fuori. Avevo voglia di uscire all’aria aperta e annusare l’aria profumata dal biancospino in fiore come una nuvola, che quando ci passi accanto ti stupisce con quel nonsoche che avverti improvvisamente. Sentivo un gran desiderio di correre nella campagna mattutina. I capelli sembravano più lunghi del solito. Ancora con il profumo del letto addosso e il calore del piumone trattenuto dal corpo scesi di corsa le scale e uscii di casa. Né lavare la faccia, né denti, né latte caldo e caffè, né sul cellulare la lettura di messaggi come una preghiera quotidiana. Fuori dovevo andare.
Iniziai a correre piano piano quasi a sgranchirmi le caviglie e le ginocchia. Il sole era già alto, ma l’aria ancora fresca. L’arancione delle calendule in fiore ai bordi del cancello della vicina, il nontiscordardime vigoroso e strisciante a dispetto dei minuscoli petali azzurrini, e viole. Viole dappertutto: nei vasi dei giardini quelle di razza, fresche e giovani donzelle, generose della loro gioventù, e quelle nei prati, pudiche, nascoste, minuscole, coi loro colori. Bianche, viola chiaro e viola intenso: le viola chiare sembrano nate da mamma bianca e papà viola. Ci vedo sempre la famiglia e con questo pensiero la corsa divenne vera corsa: non più fatica delle membra, non più il cuore che batte, non più il calore al viso, ma ali al corpo leggero.
Presi il sentiero che conduce alla campagna adiacente al quartiere. Non lo diresti mai, ma davvero mi pare di fare un tuffo nel passato quando arrivo alle due case coloniche che abitano quello scorcio rurale appena dietro alle case. Quando arrivai alla prima, quella dal sapore più autentico, sperai di trovare il coraggio. Quando passavo lì davanti sentivo l’odore di stalla, quell’odore che non si sente più nelle grandi stalle moderne. È un odore particolare quello della piccola stalla accanto alla casa, col bovaro che esce dal fienile col fieno infilato nella forca a quattro denti. Dentro immaginavo le poche vacche trattate da gran signore: ognuna col suo spazio delimitato dalla mangiatoia in legno e dalle colonnine di marmo sulle quali la rondine aveva allestito il suo nido. E poi la targhetta nera col nome in gesso bianco e lei, la vacca, sa di essere parte della famiglia. C’è l’odore del suo corpo, del latte, del letame, del fieno che impregna ogni parte del corpo in chi entra, e questa è l’appartenenza.
Lo trovai il coraggio. Andai di passo, cauta per la paura della presenza di un cane e per la proprietà privata da non violare. Ma entrai. Non c’era nessuno. Il fienile era illuminato dai raggi del sole ora un po’ più caldo. Un trattore Landini al centro sul cui sedile un gatto aveva fatto il nido e che si alzò immediatamente al mio ingresso, un abbeveratoio in marmo sotto la gelosia di mattoni con i secchi di metallo e la maniglia della pompa in ferro, due sacchi di concime nell’angolo sulla destra, una bici da uomo nera a fianco della porta della stalla. Appena varcai la soglia di mattoni crudi che delimitano gli spazi del fienile e della stalla si girarono tutte le matrone dagli occhi dolci; una sferzò un colpo con la coda a scacciare le poche mosche che le ronzavano attorno, l’altra diede uno scroscio caldo e placido che finì come un rivolo nella canaletta che delimitava il passaggio centrale, l’altra rituffò la testa nella mangiatoia e strappò un mazzetto di fieno fragrante, l’altra immobile, placida come la perfezione. Davvero era così come mi ero sempre immaginata nelle mie passeggiate. Un cagnetto, ormai anzianotto ma giovanile nel compiere il suo dovere, sbucò e incominciò ad aggredire le mie gambe con finti attacchi e successive ritirate, mentre con il suo continuo abbaiare mi costrinse a interrompere la mia pièce idillica. Uscii a passi indietro fino a che il guardiano strillone non fu sulla porta del fienile e allora, girandomi di scatto, proseguii la mia corsa. Il cielo aveva perso il suo colore perché il sole aveva con la sua luce reso pallida l’aria e tutto intorno aveva l’aspetto della giornata da dedicare al lavoro in cui nessuno si distrae dalle sue faccende. Ripresi a correre anche io, senza più guardarmi attorno. Passai davanti alla seconda casa colonica, quella del contadino che aveva piantato in inverno un campo di cavoli e verze. Questa era la casa dell’orto, senza odori, ma con una ricchezza di particolari: ogni cosa era frutto delle mani laboriose del contadino. Se guardavi bene, il passo carraio era stato ripulito dalle erbacce con lo zappettare paziente, anche il fosso, per permettere lo scorrere agile di acque primaverili sempre più rare, il campo marrone lavorato e curato quotidianamente, gli attrezzi da lavoro appoggiati al muro del fienile e ogni cosa funzionale a quel piccolo mondo.
Un solo sguardo ampio e ripresi la corsa, questa volta volevo correre forte, senza guardare nulla, solo l’aria che leviga il corpo, il cuore che batte il ritmo, il respiro che entra dalle avide narici ed esce dalla bocca aperta, con la voglia di diventare io stessa aria nella corsa. La campagna si era nel frattempo aperta davanti a me e il suo piano era verde e il suo orizzonte svelava montagne lontane come sogni e mi invitata a raggiungerlo. Corsi più forte. Il sudore bagnava la mia pelle ed era buona cosa e lo sapevo. Questa corsa era un rinnovamento, una purificazione. Correre. Lo avevo tanto sognato e ora non mi volevo fermare.
La campagna era davvero ampia, un lenzuolo immenso steso per me. Poi sentii un rumore lontano arrivare sempre più intenso: un treno verde e bianco, un regionale con quattro carrozze, stava giungendo sui binari e mi venne l’idea di fare una gara. Incominciai la corsa leggera e con l’orecchio teso cercavo di capire la distanza del treno e poi, quando il rumore divenne prossimo, il mio grande occhio lo intravide e mi diede l’impulso a correre come non avevo mai fatto. Il treno ed io proseguimmo per un paio di chilometri fianco a fianco. La gara si trasformò in un gioco tra amici. Entrambi avevamo il sorriso sul muso per l’allegria inaspettata. Poi la casa cantoniera abbandonata interruppe l’amicizia e dovetti fermarmi. La casa era disabitata e un groviglio di cespugli la proteggeva dagli sguardi, il biancospino coi suoi fiorellini bianchi sembrava ancor più bianco nel contrasto col granata dei mattoni. Il treno aveva creato un nuovo spazio fatto di silenzio, come se la sua presenza rumorosa avesse poi creato un vuoto di suono e in questo vuoto ora potevo sentire il moscone ronzante, la raganella nel fosso, la nutria che si immerge nel canale, l’allodola alta nel cielo, lo sbatter d’ali della coppia di germani che decollano dal canneto.
Ora ero ferma. Lì mi venne la voglia di parlare. Volli dire qualcosa. Provai a dire convinta e con fare deciso: Buongiorno! Ma non uscì quel suono. Uscì invece una musica dolce come una brezza e con lei fiori di primavera profumati e con loro gli insetti, tanti e colorati, e con loro uccellini cinguettanti. Così continuai a parlare. Quanti buongiorno… e poi altre parole e con esse altre melodie e altri fiori e altri insetti e altri uccelli. E la campagna si riempì di suoni e di colori. Ero così felice di poter creare un pezzetto di nuova vita che mi alzai dritta dritta con gli zoccoli anteriori quasi a salire una invisibile scala, come a volermi arrampicare per raggiungere il cielo, mentre la mia bocca, divenuta una trombetta, emise un lungo Sì di stelle.
Stelle di giorno come fiori.